(Fonte: Corriere della Sera, di Fulvio Fiano) – Al termine del terzo dei tre incontri con la sua classe, una bambina si avvicina alla poliziotta che le ha parlato di comportamenti sbagliati da non accettare e le confessa che a lei non piace quando il suo compagno di banco viene picchiato dagli altri maschietti a ricreazione. L’agente donna non allarma la bambina con reazioni evidenti, le fa capire che ha fatto la cosa giusta a informarla e, salutati gli scolari, avvia senza perdere tempo le verifiche e le procedure di intervento.
Centoquarantatre casi, anche a sfondo sessuale, sono venuti alla luce nel progetto «scuole sicure» durante l’ultimo anno scolastico, uno ogni tre giorni, grazie a un protocollo all’avanguardia della Questura di Roma contro bullismo e cyber bullismo. Due scuole «visitate» a settimana, 70 mila studenti raggiunti (270 mila da 2012 a oggi), 9 mila docenti formati, 4 mila genitori coinvolti, l’Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico della Capitale da sei anni porta avanti una rivoluzione lessicale e culturale che vuole restituire un senso ai comportamenti sbagliati.
«La prima cosa che diciamo agli studenti , ai docenti e ai dirigenti scolastici è che la parola “bullismo” non deve essere un paravento per nascondere e giustificare azioni da codice Penale», spiega Ciro Nutello, l’assistente capo della polizia che coordina il progetto. E così il concetto «bullismo» viene smontato e ricomposto in 13 piccoli esempi. Il compagno che prende oggetti dal tuo zaino commette un furto. Quello che ti minaccia per farsi dare i soldi della merenda realizza un’estorsione. Se però li prende con violenza è una rapina. Gli insulti sono un’ingiuria. E così via con violenza privata, molestie e atti persecutori.
«Si è parlato di bullismo anche nel video della scuola di Lucca, dove un docente viene minacciato, umiliato, colpito con un casco — ragiona Nutello —. I ragazzi devono sapere che sopra i 14 anni sono penalmente punibili, che i loro genitori saranno chiamati a risponderne e che le conseguenze possono ricadere sulle loro vite da adulti». Ma il lavoro, come detto, è anche sui docenti, ai quali viene sottolineato che «sono pubblici ufficiali e hanno il dovere di segnalare e intervenire». «Ci imbattiamo in professori che per paura o impreparazione minimizzano o provano a chiudere la vicenda in modo informale, compromettendo anche eventuali indagini. I docenti devono sapere che ci sono gli strumenti per non restare soli ad affrontare questi casi».
Ma il fine non è la repressione, se non in casi estremi, bensì la comprensione e la prevenzione attraverso la comunicazione circolare di informazioni. In questo schema operativo i 43 commissariati di zona, con il loro personale formato in modo specifico, sono il fulcro di una rete in cui Asl, enti, associazioni, municipi, scuole fanno ognuno la propria parte nel raccogliere segnalazioni, incrociare dati, affrontare situazioni spesso al limite del disagio sociale. Il metodo d’azione è brevettato: la polizia va a scuola in coppia – un agente uomo e una donna – per un primo contatto. Poi torna due volte incontrando gruppi mai più ampi di due classi. Dal primo segnale, partono gli accertamenti. «I bambini o i ragazzi ci vedono come confidenti e finiscono per fidarsi — dice Alessio Zucconi Mazzini del commissariato San Paolo, uno dei più attivi —. Da sei anni stiamo scoprendo un mondo sommerso anche di reati comuni. Abbiamo una scatola dove lasciare biglietti e dai disegni espliciti fatti da una bambina, ad esempio, siamo passati a un referto del 118 per cristallizzare la prova di una violenza subita». La formula prevede anche che nelle scuole vadano sempre agenti con ruoli operativi, perché l’esperienza affinata in questi anni ha dimostrato che certi discorsi hanno più ascolto e credibilità se vengono fatti da chi conosce certe dinamiche e sa come intervenire. Così si scopre che dietro un «bullo» quasi sempre ci sono maltrattamenti o di abusi subiti o un disagio comportamentale non segnalato o riconosciuto.
Gli interventi sono calibrati su fasce di età e già alle medie si tocca anche il tema del cyber bullismo. «I ragazzi sono tanto disinvolti nell’uso dei social quanto sprovveduti sulle sue conseguenze — spiega Nutello — e sempre più spesso registriamo una tendenza a confondere quello che è reale da quello che è virtuale». Ad esempio il «sexting», neologismo che descrive le chat più esplicite in cui ci si scambiano anche foto di parti intime. «Ormai si comincia a 10-11 anni, ma i ragazzi devono sapere che il telefono con chi chattano non è loro, perché la sim è intestata ai genitori e sono questi che finiscono nei guai». Anche nel virtuale vale il discorso fatto per i reati da codice Penale, vedi il furto o sostituzione di identità creando falsi profili sui social. «I genitori devono sapere che rischiano un’accusa di divulgazione di materiale pedopornografico se sui telefoni dei loro figli girano immagini esplicite», dice Nutello. L’altra convinzione errata è che un profilo anonimo o un commento cancellato mettano al riparo da eventuali conseguenze. «Scrivere put…., o dare della negra a una compagna è calunnia, diffamazione. La scuola non è più la famiglia, dove al massimo arriva una punizione, ma per fortuna non è ancora la strada, dove le conseguenze degli sbagli sono più gravi. Resta un luogo dove educare e spiegare che il rispetto delle regole vale sempre».