(Fonte: Corriere della Sera, di Stefania Moretti) – Il buio arriva scambiandosi idee. L’assemblea pubblica in via di Scorticabove, a San Basilio, iniziata col sole, finisce sotto una falce di luna. Due ore e mezza a discutere, rifugiati e associazioni, davanti ai cancelli chiusi del civico 151, che adesso sono diventati attaccapanni: solo i vestiti stesi ad asciugare arrivano al di là delle inferriate. Gli uomini no.
Oltre la recinzione chiusa c’è lo stabile che per più di dieci anni è stata casa di 120 sudanesi titolari di protezione internazionale. Dal 5 luglio tutti sfrattati. Dal 14 non si entra più neanche per andare in bagno: la toilette è a cielo aperto. Come, del resto, il sonno o il pranzo.
Giacomo Gresta, dell’Usb, è realista: «Qua un po’ de tempo ce staremo, rega’. E bisogna provare a starci nel miglior modo possibile». Che fare dalla strada? Creare un’associazione? Stampare magliette da rivendere? Federica Borlizzi, giurista di Alter Ego-Fabbrica dei diritti, prende appunti. Sui materassi e le sedie in circolo siedono rappresentanti di Arci, A buon diritto, Baobab e Brigate di solidarietà attiva.
Ai sudanesi accampati sotto i gazebo serviranno cibo e acqua, ma anche borse frigo e teli per ripararsi dal sole o dalla pioggia devastante come quella che, lunedì sera, ha allagato la tendopoli. «Ancora a parlare di cibo? – sbotta Musà -. Non ci serve il pranzo pronto. Ci serve di comunicare che siamo un presidio». Più che sopravvivere, ai rifugiati interessa restare compatti. Che poi, per loro, è la stessa cosa: si sopravvive insieme perché insieme ci si aiuta. Lo hanno fatto per anni dividendo i risparmi di chi lavorava, attivando sportelli di orientamento per i connazionali in arrivo e sensibilizzando sulla guerra dimenticata del Darfur.
«Questa comunità è un punto di riferimento per chi, dal Sudan, viene qui – spiega Federica che li assiste legalmente – In questo angolo di Tiburtina Valley sono un’oasi felice e un argine alla criminalità: vivono in pace, non spacciano, lavorano».
A Roma la comunità di Scorticabove sconta – suo malgrado – non solo il dramma del Darfur ma anche Mafia capitale e la speculazione sull’immigrazione. Dopo l’inchiesta, la coop che aveva preso in affitto i locali dove abitavano i sudanesi ha smesso di pagare. Da qui, lo sfratto per morosità della cooperativa. Quindi dei rifugiati che, negli ultimi tre anni, hanno vissuto completamente autogestiti.
Loro vorrebbero continuare così: autodeterminazione e niente più cooperative. Al Campidoglio hanno proposto il co-housing: alloggi singoli con spazi comuni in una struttura vuota da valorizzare. Un modello abitativo sperimentale in Italia. E, per Federica, la legge sulla rigenerazione urbana è dalla loro parte: «Il Comune individua il bene, la Regione metterebbe i soldi e il progetto di recupero dello stabile lo scriverebbero loro».
«Impossibile – secondo l’assessora capitolina Laura Baldassarre -. Non c’è modo di sistemare queste persone subito e tutte insieme in una stessa struttura. Magari in futuro, in un immobile confiscato alla mafia». Intanto l’amministrazione pensa a come strapparli dalla strada. «Abbiamo messo a disposizione i posti del circuito cittadino per migranti fragili – continua Baldassarre -. Quattro strutture in diverse zone della città».
Il 23 luglio il tavolo permanente con la comunità sudanese, l’assessorato, le associazioni e l’Unhcr si riunirà ancora. Ma è difficile dialogare senza parlare la stessa lingua. Per un problema complesso non esistono soluzioni tampone. E di parole che semplificano, come «accoglienza», «emergenza» o «assistenza» quaggiù ne hanno abbastanza. Per l’assessora c’è un malinteso: «Il circuito cittadino per migranti fragili non è come i centri di accoglienza dove sono stati dieci anni fa. Non farebbero un passo indietro nel loro percorso di inserimento sociale. Sono posti in cui stare per un periodo e poi rendersi autonomi». La paura, dopo anni passati a non pesare sulle spalle altrui, è di perdere l’autonomia. Ma anche la grande famiglia che hanno costruito. E soprattutto l’identità. Scorticabove è una sacca di resistenza all’oblio dov’è proibito dimenticare il Darfur, l’orrore, la dittatura che opprime ancora il Paese. Issam riassume: «Dividerci è come spezzare un’altra volta il legame con la nostra terra».