(Fonte: Corriere della Sera, di Andrea Arzilli) – I sì dei Camen e dei Filip: i primi a Craiova da qualche giorno riabbracciano i tre nipoti e l’unica figlia che era rimasta in Romania; i secondi, col sostegno economico del Campidoglio, già in affitto a Brasui Postouaro – centro urbano 120 chilometri a nord di Bucarest – e col lavoro assicurato in un cantiere edile del posto. Ma soprattutto i tantissimi no – detti in rumeno, bosniaco e kosovaro – che hanno segnato l’ultimo mese di trattative tentate dal Comune di Roma in vista dello sgombero del Camping River, il villaggio con 400 rom sulla Tiberina.
I verbali relativi a due anni di tentativi, i report quotidiani degli operatori sociali e del pool di psicologi mandati dal Comune, le video-storie e le coordinate delle famiglie che hanno detto no per continuare a vivere dentro al River nonostante l’avviso di sfratto notificato dal Comune, sono stati inviati ieri a Strasburgo alla Corte europea dei diritti dell’uomo dopo che i giudici hanno deciso per la sospensione (fino a domani) dello sgombero coatto. Giga e giga di dati a testimonianza dello sforzo dell’amministrazione nel proporre alle famiglie rom delle alternative a degrado, miseria e illegalità. Dal contributo all’affitto alle soluzioni di accoglienza presso le strutture capitoline fino al rientro volontario assistito, opzione quest’ultima sostenuta da un contributo di 3 mila euro all’anno prelevato dalle casse comunali. Tutte proposte formulate ad ogni colloquio con i nuclei familiari in questione, e quasi tutte puntualmente rispedite al mittente: alcune famiglie hanno rifiutato otto offerte del Comune.
Come nel caso della famiglia G., nucleo di sei persone rumene, che nell’ultimo mese ha detto quattro volte no al Campidoglio nonostante il primo abbocco – lo scorso 23 maggio, già si sapeva che il campo doveva essere smantellato -, avesse lasciato presagire un esito positivo della trattativa pre-sgombero. Gli operatori avevano infatti incassato dai G. la disponibilità a esaminare le soluzioni dell’amministrazione, quindi avevano fissato la data per il colloquio ufficiale. Al quale, però, alla fine nessuno si è presentato, buca in piena regola. Un «silenzio dissenso» che, secondo Arun -capofamiglia dei G. – valeva come un «non ci interessa più».
Il secondo tentativo è del 14 giugno: ai G. viene offerta una possibilità in una struttura del Comune. Però il no viene messo a verbale quasi subito, perché al River si sa da tempo che in tante case accoglienza della Capitale alle famiglie tocca dividersi per sistemarsi – i padri da una parte, moglie e figli da un’altra – e Arun (comprensibilmente) non vuole. Così gli operatori sociali riprovano garantendo ai G. un posto nella struttura situata in via Toraldo: lì le famiglie possono restare unite, nessuna separazione, solo un trasloco. Ma il no arriva lo stesso, secco e definitivo su questa terza come sulla quarta opzione, ovvero un pacchetto di proposte messo a punto e finanziato dal Campidoglio: massimo 800 euro al mese di sostegno all’affitto, l’inserimento nel mondo del lavoro attraverso una serie di corsi di formazione oppure una fiche di 5 mila euro da investire per avviare un’attività. Ma niente da fare. A parte i 14 sì dei rom già rientrati a Craiova più le quattro famiglie che hanno trovato una casa da affittare e che quindi usufruiscono del gettone comunale, il Comune ha incassato solo dinieghi. Tutti dettagliati nel plico spedito a Strasburgo.