(Fonte: Corriere della Sera, di Andrea Arzilli e Fulvio Fiano) – Precipitati da un giorno all’altro da Milano a Roma, dal management privato all’amministrazione pubblica, dalle scelte aziendali agli equilibri politici, Adriano Meloni e il suo staff si affidarono a Raffaele Marra per decidere quale dirigente fosse più adatto all’assessorato Turismo. Il risultato? «Le nostre priorità erano tre: tenere Silvana Sari, trasferire ad altri uffici Michele Luciano e prendere con noi Renato Marra, quest’ultimo su suggerimento del fratello. Alla fine la Sari andò via, Luciano restò e Marra venne preso solo per poi essere rimosso».
È la terza udienza del processo che vede Virginia Raggi (a ottobre la sua audizione, a novembre la sentenza) imputata di falso per la nomina di Renato Marra. «MiniMarra», come veniva chiamato in chat. In aula compaiono Meloni, il suo capo staff Leonardo Costanzo, il delegato della sindaca alle relazioni sindacali Antonio De Santis. Le loro ricostruzioni sul ruolo di Raffaele Marra, che la sindaca nega, sono univoche. A partire proprio da quegli incontri per definire le priorità di ogni assessorato. «Non conoscevamo nessun dirigente – dice Costanzo -. Lui ci propose il fratello, col quale avevamo lavorato per qualche blitz antiabusivi. Non aveva il curriculum adatto ma pensammo che le sue innegabili capacità potevano essere utili». Raffaele Marra si dà da fare: «In Sala delle bandiere si svolse un incontro sulle nomine con gli assessori e consiglieri di maggioranza. C’era anche Raffaele Marra e la sindaca mi pare sia passata», ricorda Meloni.
Il pm Francesco Dall’Olio chiede se si trattò di un suggerimento o di pressioni di quello che all’epoca era il responsabile delle Risorse umane. «No, ce lo disse scherzando – risponde De Santis – “Renato potrebbe fare il capo della municipale, ma ci sarebbero polemiche. Da voi è il ruolo giusto, chiamatelo per dargli la bella notizia”». Così fece Meloni, rispettando anche l’orario indicatogli, salvo scoprire che nel brogliaccio preparato da Raffaele, la bozza di tutte le caselle con le nomine da incastrare, non c’era cenno all’aumento di stipendio di cui avrebbe beneficiato Renato. «Col senno di poi siamo stati forse un po’ ingenui – dice ancora De Santis -. La scoperta dell’aumento fece imbestialire anche la sindaca, così richiamai Raffaele Marra ma lui mi assicurò che la sindaca era informata. Raggi era contraria alla nomina ma escludo che potesse desumere l’aumento di stipendio dal ruolo che Renato Marra andava a ricoprire, perché come noi si era appena insediata e non conosceva la materia».
La pubblica accusa prova ad andare oltre: «Come reagiste quando non vi accontentarono sui nomi e anche Renato Marra venne rimosso?». «Ne parlammo con la sindaca – risponde Meloni – esprimendo la nostra delusione. Ma poi ci siamo attenuti alle gerarchie». L’assessore pare esitante, cerca lo sguardo della sindaca in aula. Il pm lo redarguisce scherzoso: «Lei come teste è un disastro». Poi affonda il colpo: «Se Renato Marra non venne mai sostituito, forse non era così imprescindibile». «Credo di no», conviene Meloni. Ammissione che completa quelle sconfortate di chi l’ha preceduto: «In questa vicenda ci siamo sentiti soggetti passivi, con un senso di spaesamento» (De Santis). «La competenza non è mai presa in considerazione nell’interpello del Campidoglio. Si fanno le rotazioni delle cariche nei diversi settori senza competenze specifiche» (Costanzo). Su quell’interpello pende il ricorso al Tar della Dircom, sindacato dei manager capitolini, presentato su input della ex dirigente Silvana Sari. «Non si è svolto secondo parametri di trasparenza – Sari in commissione il 26 marzo 2018 -. La procedura era sulla base di valutazioni comparative che non ci sono state». Se il Tar accettasse il ricorso, l’interpello sarebbe da rifare.