(Fonte: Corriere della Sera, di Giuseppe Pullara) – Uscendo da Roma, sulla via Tiburtina, per chi volesse dare un’occhiata all’Inferno non c’è che inoltrarsi nella foresta di vecchio cemento arrugginito che si trova tra Ponte Mammolo e San Basilio. E’ una ex fabbrica di penicillina – Leo, la prima in Italia – in azione negli anni ’50 e abbandonata da decenni. La sera vi confluisce alla spicciolata una folla di disperati in gran parte africani, ma ci sono ormai anche italiani. Vi trovano riparo, tra amianto e velenosi residui chimici, un migliaio di persone. Molti hanno attrezzato una miserabile abitazione senza acqua, luce e wc. Da anni questa drammatica realtà è nota senza che nessuna autorità pensi di intervenire. Sgomberare, riqualificare: niente di niente. Troppo difficile, troppo costoso. Ogni tanto ci passano vari gruppi di volontariato, angeli inutili che non portano alcuna redenzione.
Qui prende corpo la straordinaria metafora di «Roma, madre matrigna» creata trent’anni fa dal sociologo Franco Ferrarotti. Città dell’accoglienza dai tempi di Augusto, ora Roma si accontenta di accogliere benevolmente solo i turisti, che portano un po’ di moneta. Niente braccia aperte per i diseredati dell’ex fabbrica, a loro non pensa nessuno. Non si tratta tanto di sgomberare, ma di creare un’alternativa possibile facendo precise scelte di bilancio. Se la sindaca Raggi prendesse il toro per le corna e riqualificasse l’inferno, solo per questo passerebbe, con indubbio merito, alla storia.