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Elezioni 2018, Renzi si dimette da segretario Pd: «Sconfitta netta, ora no a inciuci andiamo all’opposizione»

(Fonte: www.ilmessaggero.it)

Renzi si dimette da segretario Pd. «Abbiamo riconosciuto con chiarezza la sconfitta. Dobbiamo aprire una pagina nuova», dice aprendo il suo discorso al Nazareno. «Siamo orgogliosi dello straordinario lavoro di questi anni ma la debacle è evidente. L'Italia ha una situazione politica per cui chi ha vinto non ha i numeri per governare. Una situazione che nasce dalla vicenda referendaria di un anno fa». L'ex premier evoca quindi i 5Stelle: «La più grande bugia è "non faremo mai accordi". Mostrino il loro valore se ne sono capaci. Il nostro errore principale è stato non capire che bisognava votare in una delle due finestre del 2017, con la Francia o con la Germania. In questa campagna siamo stati troppo tecnici. Se a questo sommiamo il vento estremista che siamo riusciti a fermare nel 2014 ma non stavolta comprendiamo come il risultato sia deludente». «Il simbolo di questa campagna è il contrasto nel collegio di Pesaro: il centrosinistra ha candidato un ministro che ha fatto un lavoro straordinario con il problema dei migranti, ovvero Marco Minniti. Eppure Cecconi, il candidato M5S impresentabile per definizione degli stessi 5Stelle, ha vinto. E' ovvio che io lasci la segreteria Pd. Non c'è nessuna fuga. Terminata la fase dell'insediamento del Parlamento e della formazione del governo, io farò un lavoro che mi affascina: il senatore semplice, il senatore di Firenze, Scandicci, Insigna e Impruneta». Ma attenzione: «Non ci sarà un reggente scelto dal caminetto ma un segretario eletto dalle primarie», dice Renzi. «Ora si riparte dal basso – continua -. Dal territorio. Non solo le periferie geografiche, ma anche quelle della quotidianità». Quindi enuncia tre no: «No inciuci, no ai caminetti ristretti di chi immagina il Pd come luogo di confronto dei soli gruppi dirigenti, no a ogni forma di estremismo». «Ho già chiesto ad Orfini di aprire una fase congressuale. Un congresso che permette alla leadership di fare ciò per la quale è stata eletta». «Restituiamo le chiavi di una casa in ordine e tenuta bene – conclude Renzi -. Il Pil è umentato, l'export è migliorato, sono aumentati i posti di lavoro. Siamo orgogliosi dei risultati e siccome vogliamo bene all'Italia speriamo che quelli che sembrano pronti a prendere le redini del paese facciano meglio di noi. Noi saremo una oppisizione leale. Società aperta contro società chiusa, verità contro fake news, diritti contro intolleranze, lavoro contro sussidi, giustizia fiscale contro flat tax, cultura contro il fai da te. Sono solo alcune ragioni per cui non potremmo mai fare un governo con forze antisistema». Ieri notte, nell'ora più buia del Partito democratico, al Nazareno c'era anche Renzi. Voleva aspettare lo spoglio a casa, nella sua Firenze, e invece pochi minuti prima della chiusura delle urne varca la soglia della sede nazionale del Pd. Il «tesoretto» del 40% alle europee, che segnò l'ascesa a palazzo Chigi, è evaporato, dimezzato. E il segretario si prepara a una resa dei conti che potrebbe passare dal tentativo di condizionarne le scelte, nelle trattative per il governo. Un redde rationem che potrebbe lui stesso anticipare. Con il passo indietro. Aveva escluso di mollare la segreteria, Renzi. Ma con il passare delle ore e con il trend che sembra attestare il Pd sotto il 20% ai minimi storici, sembra accarezzare l'idea di essere coerente con la propria storia e assumersi in pieno la responsabilità della sconfitta. Ha seguito i dati nel suo ufficio al secondo piano del Nazareno con Matteo Orfini e i fedelissimi, da Martina a Luca Lotti a Lorenzo Guerini. L'elettorato del Pd sembra essersi rimpicciolito, anche al netto della scissione. Si pagano gli anni di governo, nonostante i dati del Pil positivi e tutti i risultati elencati allo sfinimento in campagna elettorale.Paolo Gentiloni segue ha seguito lo spoglio da Palazzo Chigi. I «big» non-renziani del partito non si sono visti al Nazareno. Non ci sono i ministri Graziano Delrio e Dario Franceschini, non ci sono i leader della minoranza Andrea Orlando e Michele Emiliano. Dalla minoranza, fermamente contraria a ipotesi di larghe intese, potrebbe levarsi nelle prossime ore anche la richiesta di andare a «vedere» sul serio le carte dei Cinque stelle. Un governo con i grillini e gli ex compagni di LeU (per quanto anche loro 'rimpiccioliti' dal voto) potrebbe essere anche un viatico per la ricostruzione dell'unità a sinistra. Ma il segretario è contrario a questa ipotesi e su questo non sembra aver cambiato idea. Certo, le cose potrebbero cambiare, se tra qualche ora non fosse più lui il segretario. «Il Pd andrà all'opposizione». È stato Rosato, in tv da Bruno Vespa, a sdoganare sin dai primi exit poll la parola che tutti temevano ma nessuno osava pronunciare al Nazareno fino a oggi. Una lettura apparsa subito scontata, con i numeri delle urne che di ora in ora hanno lasciato pochi margini ai dem, addirittura con l'asticella del 20% diventata difficile da agguantare. «Un tracollo. Una debacle», si è lasciato sfuggire persino qualche renziano scorrendo i numeri davanti alla tv. «Complimenti a Leu», è stato uno dei commenti di Renzi tra un exit poll e una proiezione. Ma lo schema di buttare la croce sugli scissionisti regge solo fino a un certo punto, visti i risultati poco lusinghieri raggiunti dai bersaniani. La delusione, tra i dem, è evidente. Così come la tensione. Nessun dirigente si è fatto vivo in sala stampa, disertata nonostante il numero record (300) di accreditati.